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In This Issue:
Alessandro Meluzzi
Psichiatria, Psicoterapeuta, Docente Universitario
www.alessandromeluzzi.com
Adolescenza come risorsa,
Adolescenza come conflitto
Prof. Alessandro Meluzzi
Rivista di Filosofia e Psicoterapia esistenziale
Dipartimento di Psicologia, Psicopatologia e Psicoterapia
Istituto Superiore di Filosofia, Psicologia, Psichiatria ISFiPP
Dasein n°8, Marzo, 2019
Adolescenza come risorsa, Adolescenza come conflitto, Prof. Alessandro Meluzzi, Dasein Journal 8, p. 59-70 , Scarica Articolo PDF
Nel nome della prevalenza del presente, del sincronico sullo storico, sul diacronico, sulle memorie, l’uomo schiaccia la dimensione del tempo in un eterno presente che alla fine non fa giustizia delle ragioni dell’umano.
Io credo che affrontare il tema dell’adolescenza voglia dire affrontare anche un tema che riguarda la logica del nostro tempo. Viviamo in un tempo in cui la logica è spesso misconosciuta, nel senso che la logica è un’etica del pensiero come l’etica è una logica del comportamento. Nella logica si pensa bene o si pensa male non solo e non tanto per quello che si pensa, ma per come si pensa. Io posso pensare al meglio che posso pensare, ma se io non applico i principi della logica, il principio del terzo escluso, il principio di identificazione, il principio del sillogismo, alla fine farò un cattivo pensiero perché la logica è un’etica del pensiero. L’utilizzo della logica è una delle prime funzioni con la quale io credo ci si debba confrontare quando si riflette su un’epoca talmente magmatica, talmente indistinta, quale è l’adolescenza. Affrontare le questioni della vita di un adolescente applicando i principi della logica, è un’impresa molto difficile, perché l’adolescenza per sua stessa natura, è un momento in cui cerca di affermarsi un certo principio di determinazione, un certo principio di individuazione dell’essere. Dialogare in termini logici con un adolescente è difficile perché un adolescente tende ad obbedire, spesso in modo arcaico, alla legge del “mi piace” o “non mi piace”, del “mi va” o del “non mi va”. Questo cortocircuito che bypassa ogni dialogica logica, rende molto difficile una discorsività narrativa.
Ogni generazione ha avuto nei confronti delle generazioni precedenti un atteggiamento che in qualche modo è legato alla cultura del sospetto, al pessimismo storico, però questo problema del tempo e del rapporto tra tempo e generazioni è qualche cosa che nella nostra epoca si vede in un modo forse un po’ più clamoroso. Perché? Perché manca quel senso comune di una generazione comune, dietro cui c’è un’opinione condivisa su certe cose che vanno fatte o meno.
L’assenza di un ethos condiviso nel nostro tempo non è solo l’espressione di un caos magmatico e indistinto di un’epoca globalizzata e ipertecnologica, ma è l’espressione della constatazione che la nostra società è una società particolarmente fragile dal punto di vista di un ethos condiviso, perché è una società multiculturale, multietnica, multireligiosa.
Può esserci un ethos condiviso in assenza di etnos? Ci può essere una legge comune, comportamentale senza un popolo capace di identificarsi in una legge? Senza un ethos condiviso non ci può essere un popolo libero e nella nostra società presente è malinconico ma realistico affermare questa cosa, perché mancano punti di riferimento, perché si sono persi i valori e perché la nostra società è riuscita a scotomizzare quasi perfettamente e quasi completamente la fonte e la scaturigine di ogni filosofia.
Io credo che abbia sommamente ragione Agostino di Ippona quando, in una delle sue omelie, ci ricorda che la contemplazione della morte è, in fondo, la scaturigine fondamentale di ogni filosofia possibile. Non ci può essere una relazione forte, autentica, intensa sulla condizione umana che non muova dalla contemplazione del mistero della morte.
Persino Heidegger ci ricorda che soltanto una lucida e implacabile contemplazione della morte può essere considerata l’unica scaturigine possibile di ogni nostra libertà (anche esistenziale). E certamente la nostra società è, tra tutte le società del pensiero che noi possiamo analizzare, è forse la meno attrezzata nei confronti della contemplazione del mistero della morte, che è stato relegato in una sentina di pensiero non detto e che mi fa pensare ad una rimozione totale del pensiero della morte.
Tornando al tema dell’adolescenza, è difficile non constatare che il tempo dell’adolescenza non abbia subito una certa dilatazione, perché oggi l’adolescenza comincia un po’ prima, con la pubertà, e tende ad estendersi fino ai confini della terza età. Questa dilatazione temporale di un tempo transeunte potrebbe essere vista come la manifestazione di un tratto evolutivo della specie a cui apparteniamo. Questo fatto è quello che chi si occupa di neuroscienze conosce bene e che è la neotenia, ovvero il tempo che quella specie impiega a raggiungere la piena maturità sessuale e riproduttiva. E il suo tempo, in confronto alla durata generale della vita, è un indicatore di evoluzione darwiniana. Più una specie è evoluta, più tempo impiega ad evolversi, a diventare grande. Questo si può spiegare da un punto di vista strettamente darwiniano e sociobiologico, perché più il sistema nervoso si arricchisce, più le possibilità di apprendimento e di plasticità si dilatano, più la possibilità di evoluzione anche intrapsichica diventa complessa, più aumentano le circonvoluzioni cerebrali, più la neotenia ha bisogno di dilatarsi.
In fondo potrei dire che il genio, soprattutto il genio creativo, tende spesso ad avere una struttura psicologica da eterno adolescente.
Il genio ha una sua naturale tendenza ad una eterna adolescenza che porta il puer ad occupare lo spazio e il tempo fino ed oltre i confini del senex. Quindi, questa sovrapposizione tra puer e senex in questa eterna adolescenza, potremmo anche vederla come qualcosa di positivo.
Sappiamo, però, che questa eterna adolescenza oggi porta con sé, nella nostra società, un’idea di scarsità, di preoccupazione, di paura per il futuro e di totale incapacità di scommettere sulla vita.
Nella società di oggi, questa eterna adolescenza causa una gravissima denatalità: le persone non si riproducono perché sono sempre troppo immature e perché prima vogliono realizzarsi.
Cosa vuol dire realizzare?
Vuol dire che l’adolescenza si dilata oltre i confini della biologia, sforando il tempo tra tempi storici e tempi biologici. Il fattore principale di denatalità, infatti, è dovuto principalmente alla scolarità delle donne: più le donne studiano, meno figli fanno. E questo è un fatto che noi dobbiamo leggere nella sua complessità. Questa denatalità, che è anche il frutto di un’eterna adolescenza del femminile, ha come risultato il fatto che in Italia un figlio su quattro nasce con tecniche medicalmente assistite. La morte è già diventata un evento sanitario, la nascita è diventata un evento sanitario, se anche il concepimento della vita diventa un evento biotecnologico e sanitario, questo cambia il senso bio politico della storia della nostra specie.
[...]Gli adolescenti crescono in un humus che è la famiglia. Va detto, però, che se noi guardiamo i dati della famiglia oggi, questa gode di una pessima salute, nel senso che questi rapporti familiari durano molto poco.
Perché durano poco? Perché la famiglia, che era un’antica struttura sociologica legata all’idea del matrimonio (cioè all’idea di un rapporto stabile e permanente tra un uomo e una donna con funzione primariamente di sopravvivenza, poi riproduttive e infine sentimentali), è stata sostituita da un’altra entità antropologica, che è la coppia.
Che differenza c’è tra la famiglia e la coppia? La famiglia è un’entità complessa con una struttura basata sulle relazioni di parentela. Oggi la famiglia come quella del passato non c’è più. La coppia, che appunto ha sostituito la famiglia, è un’entità radicalmente diversa.
Che cos’è la coppia? La coppia è una struttura psicosociale che si basa sull’assioma che il meccanismo che mette insieme una donna e un uomo all’inizio della loro storia, debba essere lo stesso che li mantiene insieme un’intera vita. Il che evidentemente è assurdo, perché un uomo e una donna si conoscono, si desiderano per passione, per curiosità e poi questa cosa evolve in termini diacronici in intimità, confidenza, fiducia, e poi in un grande progetto comune che include l’accoglienza della vita e la crescita dei figli. Tutto questo era caratterizzato da una dimensione di permanenza, non di precarietà e di impermanenza.
Oggi vediamo ormai la vita come una seriazione di rapporti che coprono ognuno un pezzo della nostra vita.
Questa è la statistica demografica: ormai in città come Parigi o Roma, in una scuola materna, la minoranza dei bambini cresce in famiglie strutturate come quelle che abbiamo ereditato dalle generazioni precedenti, dove c’è un papà, una mamma e i fratelli, ma crescono in situazioni variamente ricomposte e che non possono non influenzare la vita dell’adolescente.
Quando noi vediamo queste situazioni classiche che se nelle migliori delle ipotesi si nutrono di una borghesia classica, raffinata e metropolitana, sono potabili. Il bambino ha il domicilio permanente dalla mamma e dal suo nuovo compagno, poi vede il papà e la sua nuova compagna per due fine settimana e una notte in settimana. E questo bambino che non è solo, perché circondato da una serie di adulti (perché ha 4 genitori, 8 nonni, un cospicuo numero di zii che gettano su di lui tutti i loro bisogni di genitorialità) che lo riempiono in maniera riparatoria di telefoni, play station, diventa una specie di totem narcisista con la valigia che gira da una casa all’altra sviluppando delle relazioni precarie ed onnipotenti che poi estenderà l’adolescenza al massimo grado.
L’assenza di relazioni di attaccamento a base sicura in un certo passaggio della vita precarizza tutte le dinamiche di natura comportamentale, comprese soprattutto quelle legate alla percezione della frustrazione.
Questa difficoltà a metabolizzare le regole, le frustrazioni, si traduce nella standardizzazione e nella stereotipizzazione stigmatizzante di una diagnosi sull’adolescente, a cui si diagnostica un disturbo borderline di personalità. Notoriamente il borderline non sopporta le frustrazioni, non sopporta le regole, trae piacere solo da comportamenti a rischio e trasgressivi.
In questa situazione si innescano anche tutte le altre difficoltà di identificazione e di individuazione dell’adolescente, che le società tradizionali nutrivano del cosiddetto rito di passaggio. Non ci può essere una società organizzata che non abbia i suoi riti di iniziazione.