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In This Issue:
Alberto Rezzi
Redattore e traduttore, Psicologo, Counselor Filosofico diplomato ISFiPP, Docente del Laboratorio di lettura testi del Master di Specializzazione in Counseling Filosofico SSCF & ISFiPP
Il Counseling Filosofico per la terza e la quarta età
Prof. Alberto Rezzi
Rivista di Filosofia e Psicoterapia esistenziale
Dipartimento di Psicologia, Psicopatologia e Psicoterapia
Istituto Superiore di Filosofia, Psicologia, Psichiatria ISFiPP
Dasein n°8, Aprile, 2019
Il Counseling Filosofico per la terza e la quarta età, Prof. Alberto Rezzi, Dasein Journal 8, p. 131-149, Scarica Articolo PDF
Introduzione
«Se la nostra vita non deve dissolversi nella dispersione, bisogna che si senta in un certo ordine; bisogna che, giorno per giorno, raggiunga una connessione in virtù di una direzione di lavoro, che trovi pienezza e attimi di elevazione, che si approfondisca nella ripetizione. In questo caso la vita, anche se si svolge nella monotonia di un lavoro quotidiano, è permeata dalla sensazione di possedere un senso preciso. Allora ci sentiamo come protetti in una coscienza universale e individuale, abbiamo un saldo basamento nella storia a cui apparteniamo e nella vita che ci è propria, e ciò attraverso la memoria e la fedeltà» (K. Jaspers, Introduzione alla filosofia).
Questa citazione di Jaspers (2010, p. 103) inquadra perfettamente quanto intendo qui presentare: un approccio filosofico ai soggetti che attraversano o si avvicinano alla terza e alla quarta età, indagando la dimensione soggettiva e discontinua del tempo, il rapporto col passato e la memoria. Vedremo in quali termini quella dei soggetti anziani è, spesso, una «difficile felicità», segnata da ciò che Ricoeur chiama la lezione episodica della malattia e la lezione cronica dell'invecchiamento.
Sulla scia di alcuni spunti del filosofo francese, esamineremo come lo sviluppo dell'identità narrativa e la riconfigurazione autobiografica possano essere importanti strumenti per il counselor filosofico.
Preliminarmente, diciamo che terza e quarta età presentano confini convenzionalmente stabiliti (64-74 anni: “giovani” anziani; 75-84 anziani veri e propri) le cui cifre sono in costante aumento negli ultimi decenni. Ma, soprattutto, si tratta di fasce di popolazione che vivono una fase della vita in cui si trovano ad affrontare cambiamenti significativi come il pensionamento, l'invecchiamento, la cronicizzazione di alcune malattie, un nuovo stile di vita con più tempo libero a disposizione, e talvolta anche l'entrata in residenze per anziani...
Il filo conduttore che ho preso a riferimento per elaborare un percorso di counseling rivolto a queste persone è quello dell’antropologia filosofica dell'uomo capace di Paul Ricoeur. Infatti, gran parte della letteratura a disposizione parla di “invecchiamento” e “vecchiaia” a partire da una prospettiva di im-potenza, di in-capacità, procedendo dunque in negativo a partire dalle deficienze che connotano queste età della vita. Mi è parso invece necessario avvicinarmi a questa fase dell’esistenza da un’ottica di capacità e da una prospettiva filosofica precisa, ermeneutica. Ricoeur sostiene infatti che l'essere umano debba riconoscersi ed essere riconosciuto come colui che è capace di agire, di dire, di raccontarsi, di ricordarsi. Anche la memoria, dunque, va intesa non già a partire dalle sue mancanze e disfunzioni, bensì come una vera e propria capacità dell'uomo: il poter fare-memoria è fondamentalmente una struttura antropologica di base.
Qui ci preme anzitutto sottolineare come la memoria possa essere una risorsa attiva, viva, nella costruzione mai definitiva della nostra identità personale, che Ricoeur interpreta primariamente come identità narrativa. Leggendo l'esperienza umana attraverso le modalità del linguaggio, il filosofo francese coglie il mutuo condizionamento tra narrazione ed esperienza temporale, fra tempo e racconto. Il concetto chiave qui è quello di rifigurazione, intesa come la trasformazione dell'esperienza viva sotto l'effetto del racconto. Attraverso la narrazione, infatti, l'uomo scopre la possibilità di ridescrivere il reale, ovvero dimensioni nascoste della propria esperienza che possono anche portare a trasformare la visione della realtà. Grazie alla propria identità narrativa l’uomo ha dunque la capacità di mettere in racconto in modo concordante gli avvenimenti della propria esistenza, pur nella consapevolezza di quanto ogni progetto di questo tipo sia votato all'incompiutezza: «Sul percorso noto della mia vita, posso tracciare molteplici itinerari, tessere trame di più intrecci, in breve raccontare svariate storie, nella misura in cui, a ciascuna, manca il criterio della conclusione» (Ricoeur, 2011, p. 254).
La narrazione ha il potere di rendere intellegibili le azioni, situandole tra gli eventi precedenti e il futuro possibile: essa consente di articolare narrativamente retrospezione e prospettiva, in quanto non è solo un modo di rappresentare fatti passati, ma anche di formare attese su eventi futuri.
In La memoria, la storia, l'oblio Ricoeur fa leva sulla mediazione esercitata dalla memoria tra esperienza temporale e attività narrativa sottolineando come la memoria non riguardi soltanto il passato, perché il suo lavoro si colloca entro il cerchio complessivo della dialettica temporale. Non si può cioè, secondo il filosofo francese, cogliere l’essenza del passato prescindendo dal suo legame dialettico con le altre due istanze temporali. Si tratta dunque «di inserire la memoria nel movimento di scambio con l'attesa del futuro e la presenza del presente, e di chiedersi come ci serviamo della nostra memoria rispetto all'oggi e al domani» (Ricoeur, 2004, p. 23). Qui Ricoeur supera le concezioni proprie di Agostino (libro XI delle Confessioni) e di Heidegger (Essere e tempo), che non hanno colto la «equiprimordialità di ciascuna di queste tre istanze»: in Agostino è infatti il presente che esplode in tre direzioni (il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l'attesa); in Heidegger, invece, il privilegio è accordato al futuro, sotto il segno dell'essere-per-la-morte. Riaffermando il movimento dialettico della temporalità, Ricoeur intende mostrare come futuro e passato si ripercuotano l’uno nell’altro. Solo l'opinione comune ritiene infatti che il passato sia ciò che non può venir cambiato e perciò lo concepisce come determinato, attribuendo solo al futuro il carattere di apertura e indeterminatezza. «Questa, però, non è che la metà del vero, poiché, se i fatti sono incancellabili, se non si può più disfare ciò che è stato fatto, né fare in modo che ciò che è accaduto non lo sia, in compenso, il senso di ciò che è accaduto non è fissato una volta per tutte; gli eventi del passato possono essere interpretati in modo diverso, il che equivale a una conversione del senso stesso dell'evento» (Ricoeur, 2004, p. 41).
Questa prospettiva fa il pari con quella che Raymond, nel campo della filosofia della storia, chiama la lotta contro «l'illusione retrospettiva di fatalità», per cui sarebbe possibile spezzare il determinismo reintroducendo retrospettivamente un elemento di contingenza nella storia. In questo movimento dialettico di retrospezione e progetto si tratta di riafferrare le promesse non mantenute del passato, di andare alla ricerca di quel potenziale di senso lasciato ancora inesplorato, riattivando e risvegliando cifre rimaste mascherate.
Il passato non va perciò identificato come una sostanza, un luogo o un deposito di ricordi, bensì «disentificato» in favore di una concezione che non lo blocchi in immagini fisse ma ne preservi la dinamica nel trascorrere del tempo.
La memoria è dunque anzitutto questa capacità di percorrere, di risalire il tempo, da cui dipende in ultima istanza anche l'orientazione stessa dal passato verso il futuro. Essa non è qualcosa di passivo, ma è piuttosto una forza attiva che s'intreccia con tutte e tre le dimensioni del tempo assicurando così la continuità della persona e la sua identità. Grazie alla memoria incontro me stesso, mi ricordo di me, di ciò che ho fatto. I ricordi sono in tal senso esistenziali nel senso che strutturano la nostra maniera di esistere, di essere al mondo. Ricordandosi di qualche cosa, infatti, ci si ricorda anche di sé.
La discontinuità del tempo
Questo lavoro della memoria può tuttavia assumere anche colorazioni inquiete; il ricordo è infatti una ri-presentazione, nel duplice senso del «ri»: all'indietro e di nuovo. Ricordando, cioè, si può ritrovare ciò che è familiare (heimlich), ciò che è casa propria; ma anche entrare in contatto con l'inquietante estraneità, l'Unheimlichkeit di cui parla Freud. I ricordi felici portano del resto in sé la promessa di una ripetizione, di modo che il tempo trascorso può assumere i tratti del rimpianto e della nostalgia.
Questa considerazione ci porta a evidenziare come esista una concezione personale e soggettiva del tempo inteso non solo nella classica ottica lineare passato-presente-futuro, ma anche secondo una visione “a salti”, fatta di punti critici e di tempi sospesi. Quest'ultima concezione si presta ad offrire soluzioni diverse rispetto alla prima, soprattutto quando ci troviamo ad affrontare situazioni esistenziali in cui il tempo sembra essersi inceppato, il presente non essere più così pieno di significati, e ci sentiamo incerti e smarriti. Una condizione in cui possono ritrovarsi molti soggetti che si affacciano sulla terza e la quarta età...
La memoria non fornisce quindi una semplice riproduzione letterale di ciò che è stato, ma si rivolge al possibile rimasto latente, lo ridesta e ne fa potenza storica. In questo senso, la sua opera può aiutare ad aprire e trascendere la chiusura di situazioni esistenziali che parevano destinate a ripetersi inalterate, e da qui illuminare il progetto che si apre verso il futuro. Ciò diventa particolarmente significativo se pensato in relazione a quei momenti in cui la vita, anziché fluire rassicurante, si pone di fronte a noi quasi come estranea, insidiata nel suo senso e nella sua direzione. Questo tempo di sospensione può essere in sé doloroso, ma può anche aprire possibilità mai considerate prima. La memoria consente allora di entrare in un rapporto consapevole con il proprio passato, ponendo fine alla sua estraneità attraverso un risalimento nel tempo, un riprendere i momenti attraversati dalla vita in un continuo approfondimento di sé.
La narrazione
Il ricorso alla narrazione, cioè alla capacità dell'uomo di narrare e raccontarsi, può essere uno strumento molto utile per mettersi alla ricerca di quei brani della propria storia individuale che sfuggono per natura alle teorie patologiche, e che restano perciò come sospesi in un orizzonte di senso parzialmente indecifrato. Questo aspetto è di particolare rilievo se applicato non solo alle condizioni quotidiane dell’esistenza, ma anche ai momenti critici che possono darsi in caso di malattie, situazioni invalidanti, riduzione delle proprie autonomie e di nuove o prolungate condizioni di fragilità e solitudine. Ovvero con tutta quella gamma di esperienze che possono verificarsi con l'invecchiamento. Ricoeur parla in merito di una «lezione cronica» dell'invecchiamento, più profonda della «lezione episodica» della malattia, in quanto può tradursi in un deprezzamento radicale, in una svalutazione vitale della propria condizione.
Se affrontiamo questo tema da una prospettiva esistenziale, notiamo che definendosi unicamente come “progetto” (il “progetto esistenziale” di cui parla Sartre) l'individuo finisce per definirsi unicamente in riferimento a se stesso, con i propri criteri personali di valutazione. In realtà, ammonisce Ricoeur, l'identità personale, il riconoscimento di se stessi, non può dipendere unicamente da un progetto esistenziale, in quanto è un'impresa indefinita e interminabile, decisamente più vicina a un'avventura di “individuazione” e di “riappropriazione”. «Di fatto, l'identità personale non può essere un semplice progetto che si butta in avanti; essa richiede un lavoro di memoria, grazie a cui il soggetto raccoglie se stesso e tenta di costruire una storia di vita che sia, a un tempo, intellettualmente leggibile ed emotivamente accettabile. Non c'è coerenza narrativa senza integrazione della perdita» (Ricoeur, 2004, p. 236).
Queste riflessioni hanno notevoli ricadute sulle prospettive di counseling filosofico che intendo qui abbozzare. Sappiamo infatti che alcune esperienze di malattia o invalidamento possono comportare una destrutturazione del corpo e del linguaggio del soggetto, producendo estraneità, frustrazione, isolamento. Può prodursi cioè una rottura dell’unità e dell'identità personale, in cui il tempo non costituisce più una sequenza ordinata e coerente. La narrazione e il raccontarsi possono allora consentire al soggetto di operare una mediazione tra il proprio mondo interiore e il mondo esterno, mediazione che potrebbe sembrare talvolta pericolosamente preclusa: si pensi in tal senso ai frequenti esempi letterari di patoautobiografie, racconti di malattia in prima persona, che mostrano il bisogno del soggetto malato di recuperare un’unità che pare essersi dispersa.
Nella narrazione si riflette la ricerca di un’armonia in cui integrare le dissonanze temporali e valoriali prodotte dalla crisi. Il distanziamento operato dal racconto permette di guardare alle situazioni in cui si è coinvolti da una prospettiva diversa e per certi versi di ri-configurare, ri-costruire l'identità del soggetto non solo in seguito ad una malattia, ma anche ad esempio ad una grave perdita o al distanziamento dalle proprie stanze, dai propri luoghi e dai propri affetti quale avviene emblematicamente in caso di ricovero presso una residenza per anziani. L’intervento di aiuto, in questi casi, dovrebbe avere come obiettivo quello di rompere la chiusura in se stessi che la malattia e l'isolamento possono comportare, facendo anzitutto leva sulle risorse dell'individuo, ancorché limitate dal fatto che potrebbe sentirsi prigioniero della sua stessa situazione esistenziale. In riferimento alle persone anziane, si tratterebbe oltretutto di insinuarsi in quella sorta di “anima abituata”, apparentemente passiva e pigra, che ha come esito certo quello di rafforzare ulteriormente il senso di solitudine.
Sulla base della lezione ricoeuriana dell'uomo capace, qui colta soprattutto dal lato delle capacità di raccontare e di fare-memoria, possiamo tentare di applicare quanto detto concretamente nel dialogo con persone “anziane” utilizzando come strumento pratico la narrazione e il racconto, non solo autobiografico. In questo modo potremmo cercare di far emergere, di schiudere alcuni frammenti altrimenti inascoltati e inespressi di un mondo sommerso che permane gravido di domande di senso, legate alla vita, alla sofferenza, alla morte, all’amore per i propri cari, da accogliere e valorizzare in un tempo della vita in cui i progetti di lavoro e di famiglia fanno giocoforza spazio a momenti di riflessione più intima e individuale.
Applicazione nel Counseling Filosofico
In un percorso di counseling filosofico, il lavoro autobiografico può fungere da strumento iniziale, da apripista in funzione di una relazione d'aiuto rivolta essenzialmente a persone anziane, con incontri individuali e/o di gruppo. La narrazione e il pensiero autobiografico vengono qui considerati quale parte integrante del vasto ambito della “cura di sé”. Secondo Duccio Demetrio, quello di raccontarsi è fondamentalmente un lavoro di “tessitura”: il pensiero autobiografico non va infatti inteso come un generico desiderio intimistico, bensì può prendere la forma di un diario retrospettivo, di un progetto narrativo compiuto o di una storia di vita. Laddove se ne presentino le condizioni, può trasformarsi anche in un esercizio filosofico applicato a se stessi, un luogo interiore di cura di sé attraverso cui ci si riprende tra le mani e al contempo si dà forma a quello che si è stati e si è fatto. Da questo punto di vista l'autobiografia non è un chiudere i conti con il passato, quanto piuttosto un “viaggio formativo”, un percorso di autoformazione che si mette alla ricerca di un bandolo e tenta di ricomporre frammenti e fili di un testo che, in età adulta o senile, è ormai scritto nelle sue parti fondamentali. La maturità stessa diventa sotto questo aspetto un sentimento di coralità interiore che viene a sintesi, un percorso volto all’accettazione della propria molteplicità: esso, sostiene Demetrio, «è il tempo della sutura dei pezzi sparsi; è il tempo in cui uno dei nostri io si fa tessitore» (Demetrio, 1996, p. 33). Si impara a guardarsi dall'alto, alla ricerca delle vie maestre e dei sentieri, delle zone d'ombra e di quelle chiarificate, dei picchi e delle pianure. In questo senso, rivisitare il passato è solo l'occasione per ricominciare a cercare, con la consapevolezza talvolta di non arrivare a capo di nulla, di rimanere in sospeso.
Nel lavoro autobiografico, quando ricordiamo e raccontiamo, la nostra mente non si accontenta di evocare singoli ricordi, ma ha bisogno di “gettare le reti” tra essi e metterli in collegamento attraverso nuove ricomposizioni: in questo senso l'introspezione autobiografica può essere una forma di autonutrimento, perché scopriamo che ci siamo alimentati da sempre di una trama interiore fatta di immagini, forme, storie... Attraverso questo lavoro, pertanto, ci riappropriamo della nostra memoria come della fonte della nostra coerenza e del nostro agire, come ciò che tiene insieme la nostra vita. Non è un ritrovamento melanconico dei passi perduti, quanto piuttosto una ricerca delle loro risonanze nel presente e del movimento che li trascina verso l'avvenire. Le nostre esperienze di vita costituiscono infatti l'impalcatura della nostra esistenza, ciò che edifica quello che siamo e che pensiamo.
Questo lavoro può essere un'esperienza creativa, utile per raccontarsi e raccontare quello che abbiamo visto lungo il viaggio e individuare gli incastri, i perni e tutto ciò che dà struttura alla nostra storia. In questo modo abbiamo la possibilità di ridurre e gestire le complessità scomposte che provengono dal passato. Il lavoro autobiografico può anche aprirsi a possibilità di utilizzo che vanno oltre l'ambito strettamente narrativo per giungere a quello più strettamente filosofico: si tratta infatti di un’attività che affina il lavoro della mente, rafforza le capacità cognitive attraverso l'esplorazione interiore, la riflessione sul proprio modo di pensare e agire, l'introspezione... Inoltre, dal racconto possono emergere sia versioni della propria identità attente ai fatti vissuti, ai personaggi incontrati, ai problemi superati, sia versioni in cui il soggetto ricorda non per fatti, ma per significati tratti dall'esperienza, quindi per riflessioni. In questo caso si può dare vita, all’interno del colloquio di counseling, ad una sorta di autobiografia filosofica, a un diario del proprio pensare.
Qui, con atteggiamento filosofico, si può assumere un punto di vista che non si limita alle apparenze, che discute ogni affermazione e che vaglia i problemi senza riferirsi a risposte preconfezionate. Inoltre si perfezionano le modalità analitiche, la decostruzione delle affermazioni acritiche, la ricerca di riscontri empirici, cercando sempre di capire i perché degli accadimenti e delle azioni prese in considerazione.
Questo tipo di lavoro su di sé assume un senso particolare in età anziana e senile: è soprattutto in questo periodo della vita, come ha insegnato Nietzsche, che si è “pensatori” in quanto si “ha esperienza” e si fa leva su tutto ciò che ci ha formato e ci ha educato. In questa età della vita, ammonisce tuttavia lo stesso Nietzsche, l'anima di colui che viaggia verso «il meriggio della vita viene colta da uno strano desiderio di pace. (...) Molte cose vede allora l'uomo che non aveva mai viste, e sin dove giunge il suo sguardo tutto è come intessuto in una rete di luce, quasi sepolto in essa. Si sente felice, ma è una difficile, difficile felicità» (cit. in Demetrio, 1996, p. 217).
In conclusione, dunque, la nostra identità non è qualcosa di dato una volta per tutte ed esige un continuo interrogarci sul senso del nostro essere-nel-mondo.
Il “raccontarsi” è una capacità, un bisogno elementare iscritto nella natura umana, teso a dare ordine e significato alle proprie esperienze e al proprio divenire. Scrive Ricoeur: «Il racconto che narriamo di noi stessi è sempre in relazione con ciò che attendiamo ancora dalla vita. Non si incontra il passato nello stesso modo quando non ci si attende niente dal futuro; l’identità narrativa, pertanto, deve essere interamente ripresa a partire da questo rapporto tra attesa e racconto». Attraverso il racconto possiamo accedere al “tempo della vita”, al “tempo vissuto”, in rapporto al quale il passato, la memoria, il presente e il futuro non sono che figure di cui facciamo esperienza.
La pratica narrativa può quindi rappresentare uno strumento efficace anche per la relazione d’aiuto su cui si basa il Counseling Filosofico, ponendo ad esempio al centro l’interpretazione di una realtà descritta attraverso le narrazioni interpersonali e intersoggettive delle esperienze vissute. La potenza espressivadel soggetto deve essere posta al centro dell'attenzione: possiamo infatti pensare che chiunque si trovi ad affrontare un passaggio difficile o “critico” della propria esistenza si senta in qualche modo a corto di possibilità, incapace di far leva sulle proprie risorse, prigioniero di abitudini ormai inefficaci, “fissato” alla propria storia.
Attraverso il recupero e lo sviluppo della sua identità narrativa, possiamo aiutare il soggetto a ritrovare un punto di contatto con la propria interiorità, promuovendo il nutrimento e la liberazione della sua potenza espressiva interiore. Nella narrazione così intesa, la posta in gioco è anche il superamento di quelle dimensioni di solitudine e anonimato che connotano la nostra società soprattutto in riferimento alla popolazione anziana. Le narrazioni, in quanto pratiche che permettono a due o più soggetti di mettere in comune una storia, educano alla“discussione, al coinvolgimento emotivo, all’ascolto dell’altro.
In ottica applicativa, questo potrebbe tradursi in un progetto di counseling filosofico da proporre individualmente e/o nei gruppi di animazione con persone residenti nelle “case anziani”, muovendo dalla convinzione che la vecchiaia non sia riconducibile ad un'età dai tratti unicamente “patologici”, ma rientri a tutti gli effetti nella visione antropologica dell'uomo capace promossa da Ricoeur.
In caso di colloquio individuale, potrebbe essere interessante applicare gran parte degli itinerari di pensiero sviluppati in precedenza e legati al lavoro della memoria e al lavoro autobiografico. In questo tipo di intervento, l'obiettivo dovrebbe essere quello di scoprire e far emergere le risorse tipiche dell'età senile, la quale, al di là delle sue connotazioni negative e difettive, è dotata di uno straordinario punto di osservazione sulle stagioni della vita: sia verso il passato, il già-vissuto, sia verso “l'ultima stagione”, con tutto il suo carico di domande, di paure, di speranze, legate non solo a se stessi ma anche alle persone care, a coloro che resteranno. Attraverso questo lavoro la persona anziana può chiarire a se stessa sempre meglio l'insieme di convinzioni, ricordi, pensieri che sono andati col tempo a costituire la trama narrativa e il senso stesso della sua esistenza. E si può aprire ad un'analisi della complessità della fase finale della vita umana.
In un'ottica di Counseling Filosofico, si potrebbe utilizzare la memoria come un vero e proprio “laboratorio personale” in cui cercare di ritrovare, ripensare e rielaborare il passato, con il suo carico di perdite ma anche di senso tangibile della propria identità e integrità nel tempo. In questo senso la memoria è un patrimonio di immagini, legami, testimonianze storiche collettive, acquisizioni, che può nell'oggi tramutarsi in risorsa messa a disposizione di altri e donata, in un confronto concreto e in un richiamo reciproco fra le età della vita. Questo lavoro potrebbe essere messo in pratica in una struttura residenziale per anziani che attivasse ad esempio un dialogo e vari incontri con una vicina scuola elementare, i cui alunni siano portati a dialogare e incrociare i loro racconti con quelli delle persone anziane intorno ad un preciso evento storico o tema. Questo scambio sarebbe, se ben organizzato, un importante contributo per entrambi i gruppi.
Nel caso di lavoro di gruppo, inoltre, si potrebbe adottare un metodo socratico e maieutico con l’obiettivo di far dialogare le persone che partecipano su argomenti da loro proposti e quindi di loro interesse. Ogni partecipante può utilizzare il tema come riferimento alla sua esperienza di vita vissuta e, a sua volta, confrontarsi con quanto detto e raccontato dagli altri. In questo modo si potrebbe far emergere il pensiero e il racconto di ogni partecipante e poi intrecciarlo con quello altrui, per vagliare, ricoeurianamente, anche la possibilità di raccontare altrimenti.
Le strategie di intervento qui delineate, naturalmente, sono solo alcune delle possibili risorse attivabili in questo campo e si prestano a modifiche e integrazioni a seconda del contesto in cui si opera.