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In This Issue:
Lodovico Berra
Psichiatra, Psicoterapeuta, Docente Universitario, Direttore SSCF & ISFiPP
www.lodovicoberra.it
L’età della maturità: età di crisi, età di saggezza
Prof. Lodovico Berra
Rivista di Filosofia e Psicoterapia esistenziale
Dipartimento di Psicologia, Psicopatologia e Psicoterapia
Istituto Superiore di Filosofia, Psicologia, Psichiatria ISFiPP
Dasein n°8, Aprile, 2019
L’età della maturità: età di crisi, età di saggezza , Prof. Lodovico Berra, Dasein Journal 8, p. 89-111 , Scarica Articolo PDF
Normalmente la fase di maturità viene fatta coincidere con l’età adulta, anche se cronologicamente non sempre l’età corrisponde ad uno stato di maturazione psicologica. Potremmo così riflettere se questa fase sia una condizione raggiunta automaticamente, solo per il fatto di aver raggiunto una certa età, oppure se essa richieda l’acquisizione di determinate qualità psicofisiche o di particolari esperienze. Lo stato di maturità psicologica può infatti comparire in giovane età, oppure in età avanzata, oppure ancora non essere mai raggiunto.
Cronologicamente si considera l’età della maturità compresa fra i 40 e i 59 anni, corrispondente a quella che viene definita “seconda età adulta”.
Secondo Aristotele (Retorica, 1390b) il «corpo raggiunge la sua maturità dai trenta ai trentacinque anni, l’anima intorno ai quarantanove».
Nella Grecia arcaica e classica veniva usato il termine Acmè per definire un momento culminante della vita, collocato intorno a quarant’anni.
La maturità può essere considerata un momento della vita corrispondente al raggiungimento di una vetta, un apice che si raggiunge solo dopo aver superato le fasi precedenti. Sarebbe quindi un momento centrale della vita, in cui vengono raggiunti obiettivi esistenziali e uno stato di maggiore e più profonda consapevolezza.
Da un’altra prospettiva il raggiungimento di un apice prelude, per il futuro immediato, ad una discesa, un decadimento. Infatti spesso le tappe “giovinezza-maturità-vecchiaia” sono intese come “ascesa-zenit-declino”. La maturità è vista quindi come un ponte verso la vecchiaia, il momento che precede il decadimento.
Per Remo Bodei (Generazioni. Età della vita, età delle cose, Laterza, 2015): «La maturità è simbolo di pienezza, di glorioso mezzogiorno, di culmine della parabola dell’esistenza e di raggiunto, felice equilibrio tra memoria del passato e proiezione nell’avvenire […] La pienezza, il solare e sereno mezzogiorno della vita dell’individuo, sta dunque nel mezzo, nella maturità, mentre la giovinezza pecca per eccesso e la vecchiaia per difetto».
Gli uomini maturi avrebbero così tutte le qualità utili che la giovinezza e la vecchiaia posseggono separatamente. L’uomo maturo ha qualità e difetti nella misura adatta e conveniente, quindi nel loro giusto equilibrio.
Non vi è però la sola prospettiva “ascesa-zenit-declino”, che rimane in un certo senso una sorta di luogo comune. La vita può essere intesa come un continuo processo di crescita che non raggiunge mai un culmine ma tende a salire costantemente. Il presupposto declino sarebbe perciò un pregiudizio determinato dal modificarsi delle condizioni di base. In genere la nostra visione viene condizionata dal porre al centro prestazioni, efficienza, velocità, come qualità che dopo la giovinezza tendono a spegnersi progressivamente. Se modifichiamo però i criteri di valutazione e li spostiamo verso qualità quali esperienza, saggezza, consapevolezza la prospettiva di crescita-declino si trasforma in uno stato di evoluzione continua.
Non è tanto quindi la valutazione della prestazione mentale e fisica come dato quantitativo bensì la prestazione considerata secondo la sua qualità.
Nella nostra cultura ci preoccupiamo di quantità: quante ore di lavoro, quanti soldi, quanto sesso, quante relazioni, quante proprietà, quanti titoli, mentre invece dovremmo preoccuparci più della qualità di ciò che siamo e di ciò che abbiamo. Come sosteneva elegantemente Erich Fromm ci troviamo in una cultura dell’avere piuttosto che in quella dell’essere, ci preoccupiamo di ciò che abbiamo piuttosto di ciò che siamo. Trasponendo il concetto alla nostra evoluzione, il sapere tante cose è preferito al conoscere profondamente alcune cose, l’avere molta forza è preferito alla qualità del movimento, avere molte relazioni superficiali è preferito a poche profonde, avere tanti rapporti sessuali è meglio che averne pochi ma intensi.
Secondo questa prospettiva la maturità e l’invecchiamento rappresentano un potenziale continuo nostro miglioramento, una crescita senza fine, un miglioramento costante, una evoluzione che si arricchisce ogni giorno di più.
La crisi della maturità
Il corpo nella maturità cambia, anche se il cambiamento è di per sé uno stato continuo del nostro essere fisico e psichico. Il nostro corpo è in continua trasformazione e così potremmo dire anche della nostra mente e la nostra identità personale. L’età della maturità rappresenta però un periodo in cui il processo di invecchiamento si fa più evidente ed accentuato.
In particolare si modificano funzioni ed equilibri ormonali, che vengono a definire la cosiddetta fase del Climaterio (scalino, punto critico): la Menopausa (45-50 anni) nella donna e l’Andropausa (dopo 50 anni) nell’uomo. Nell’uomo il climaterio è meno evidente, perché più graduale, e questo rende a volte difficile definire una età precisa in cui compare (a volte è anche dibattuto se esista veramente). Nella donna invece risulta più chiaro perché caratterizzato dalla sospensione del ciclo mestruale e quindi del periodo fertile. Nel climaterio i livelli di testosterone diminuiscono nell’uomo e quelli degli estrogeni diminuiscono nella donna. La diminuzione del testosterone determina nell’uomo una attenuazione della libido, della forza fisica e della fertilità.
Anche nella donna i livelli di testosterone diminuiscono, ma nel rapporto con gli estrogeni rimangono relativamente alti, con mutamenti a livello psichico e fisico.
La massa muscolare tende a ridursi, così come il tessuto osseo, si modificano la pelle e gli annessi cutanei, i capelli diventano bianchi, la pelle più secca, i sensi si attenuano, la vista e l’udito si riducono, e tutto ciò modifica gradualmente l’immagine corporea. Si perde l’immagine del giovane florido e vigoroso per sostituirsi progressivamente a quella dell’anziano debole e stanco.
Ma se debolezza e stanchezza rappresentassero, da un’altra prospettiva, la pacatezza e tranquillità del vecchio rispetto all’ansia e la turbolenza della giovinezza? Se l’indebolimento corporeo fosse l’occasione per spostare l’attenzione ad aspetti più interiori e spirituali? Forse non a caso l’immagine del vecchio con capelli e barba bianca è associata alla presenza di saggezza e consapevolezza.
L’apparente indebolimento del corpo potrebbe nascondere l’esigenza di portare la vita dell’essere umano ad un livello più spirituale, il bisogno di spostare l’attenzione da una dimensione esteriore e superficiale ad una più profonda ed interiore.
Se analizziamo i cambiamenti ad un livello psichico troviamo anche qui un indebolimento globale delle funzioni: la memoria diminuisce, vi è minore resistenza allo sforzo intellettuale e allo stress, vi è diminuzione della reattività e dell’attenzione, si ritrovano modificazioni quantitative e qualitative del sonno. Il tutto spesso associato ad un aumento statistico della comparsa di malattie dell’età avanzata che indeboliscono ancora di più l’immagine fisica di sé.
La trasformazione corporea evidenzia, più che in altre età, il ridursi graduale della prospettiva di vita, spesso accentuato dal confronto con il naturale aumento di lutti (più l’età avanza più è facile l’esperienza del lutto di amici, familiari parenti, …).
Gli impegni lavorativi e familiari, insieme all’indebolimento complessivo, comportano facilmente la riduzione delle relazioni sociali, con maggiore inclinazione all’isolamento.
Tutta questa serie di eventi e di cambiamenti comporta facilmente l’insorgere di uno stato di crisi: la crisi della maturità.
[...]
Statisticamente il protrarsi della vita aumenta poi anche la possibilità di malattia. È vero che ci si può ammalare a qualsiasi età, ma l’avanzare degli anni espone più facilmente alla comparsa di malattie.
La malattia fisica evidenzia in modo brutale e concreto la debolezza e vulnerabilità del corpo e nello stesso tempo limita nelle abituali funzioni quotidiane. Ciò determina uno scadimento della qualità di vita. La diminuita efficienza fisica, l’indebolimento delle funzioni sensoriali (vista, udito) la vulnerabilità cardiovascolare e metabolica, terapie con farmaci, e conseguenti effetti collaterali, interferiscono con il vivere vigoroso e spensierato dell’età giovanile.
A volte una malattia seria può essere un segno premonitore di declino e così la prospettiva della morte si concretizza e si avvicina ponendo a confronto con la finitudine della vita umana.
Le relazioni affettive
L’età della maturità può essere una età critica nelle relazioni affettive e coniugali. Secondo i dati di una indagine ISTAT sul matrimonio (2015) all’atto della separazione i mariti hanno mediamente 48 anni e le mogli 45 anni. La classe più numerosa è quella tra 40 e 44 anni per le mogli (18.631 separazioni, il 20,3% del totale), tra 45 e 49 anni per i mariti (18.055, il 19,7%). Pare quindi che nell’età della maturità vi sia una predisposizione alla crisi relazionale, forse per lo stato psicofisico particolare, forse per il tempo di evoluzione del rapporto, forse per questioni socioculturali.
Se un rapporto affettivo non è basato su solidi valori e principi, se una relazione non è stata coltivata e curata nel tempo, essa tende ad indebolirsi e ad andare in crisi. Il tempo accentua conflitti e tensioni, e un rapporto, se sottovalutato o ignorato, si spegne gradualmente portando facilmente alla crisi. Non a caso la propensione a separarsi è più bassa e stabile nel tempo nei matrimoni celebrati con il rito religioso, vale a dire nei rapporti in cui vi sia una base etica e morale più forte.
A volte la crisi è determinata non tanto dal rapporto indebolito quanto da una difficoltà ad accettare la perdita della propria capacità seduttiva, dal mutamento della immagine esteriore che tende ad essere meno attraente, oppure per il tempo che passa e chiude ogni ulteriore possibilità di avere nuove occasioni di relazione.
La comparsa di una certa inquietudine, originata dal constatare il mutamento del corpo e l’indebolimento del rapporto coniugale, può comportare uno stato di tensione e di propensione a nuove relazioni. Il bisogno di volersi innamorare ancora una volta rappresenta il tentativo di recuperare una fase della vita ormai passata e lontana. L’amore tardivo è allora come un’ancora di salvezza, un tentativo di ritorno della giovinezza, un miracoloso passo indietro (Abraham, Le età della vita, 1993).
Il bisogno di conferma, di essere ancora attraente, di avere capacità seduttive, di poter vivere ancora una volta un amore emerge dalla consapevolezza del tempo che passa e di occasioni che non si potranno più presentare.
L’amore tardivo è stato anche definito dai francesi le «Demon du midi» (il diavolo della mezza età) per descrivere quegli improvvisi innamoramenti o passioni erotiche che si manifestano nella tarda maturità (50-60 anni) e che spesso scombussolano la vita dell’individuo. Matrimoni ultradecennali bruciati, famiglie distrutte, figli abbandonati, questioni legali e finanziarie che pagano il prezzo del tentativo di un ritorno al passato; amori adolescenziali in età matura o effimere fughe d’amore che spesso portano alla fine ad un peggioramento globale dell’esistenza nell’individuo di età matura.
La crisi relazionale è allo stesso tempo causa ed effetto della crisi esistenziale individuale.[...]
La memoria
Tra le funzioni psichiche, la memoria è tra quelle che risultano più compromesse nell’avanzare degli anni. La memoria tende a ridursi con l’età, la fissazione dei dati si fa più difficile e la rievocazione più debole. Questo ha una evidente base biologica in una perdita graduale di neuroni, in particolare nelle regioni cerebrali dell’ippocampo. A volte la memoria si riduce perché non più esercitata. Questa infatti, come altre funzioni psichiche, per essere efficiente deve essere allenata. Quindi non è sempre solo un deficit neurologico ma anche spesso una diminuzione dell’esercizio psichico a determinare il calo della memoria. Per questo si raccomanda nell’invecchiamento di coltivare una continua attività intellettuale, così come d’altra parte accade anche per le funzioni corporee e muscolari.
Ma la memoria è anche esperienza e, sebbene si indebolisca la memoria di fissazione (a breve termine), rimane la memoria storica, ricca di eventi e conoscenze. La propria memoria biografica è anche consapevolezza, coscienza di sé stessi, della propria esistenza, della propria storia personale, unica ed esclusiva.
Così la memoria biografica, sempre più ricca, viene gradualmente a definire meglio l’identità personale, e più passa il tempo più l’identità evolve, si consolida, si irrobustisce.
L’età della saggezza
Non vi è un’età tipica della saggezza. Essa può esser propria dell’età giovanile, dell’età matura, della vecchiaia, oppure non presentarsi mai. Nonostante ciò viene normalmente intesa l’avanzata età matura come il momento di maggiore consapevolezza ed esperienza, e quindi di potenziale maggior saggezza. Prima è troppo presto, non essendo ancora maturate sufficienti esperienze. Dopo è troppo tardi, perché il decadimento cerebrale può compromettere lo stato psichico.
Dopo i 45 anni il peso del cervello tende a ridursi, con diminuzione delle cellule cerebrali e di sinapsi. Nonostante ciò possono continuare a formarsi nuovi neuroni, seppur in numero limitato e comunque mai sufficiente a coprire le perdite.
Ciononostante, le sinapsi continuano a formarsi e a organizzarsi, creando nuove connessioni e reti neurali. Questo corrisponde ad una evoluzione del modo di funzionare del cervello, del suo modo di pensare, di sentire, di interpretare. Dobbiamo perciò vedere l’invecchiamento cerebrale non necessariamente come una forma di regressione o involuzione, bensì come una sorta di cambiamento (o potremmo dire anche rinnovamento) che comporta una continua modificazione del suo funzionamento, non necessariamente negativa.
Questo può essere evidente anche nel fatto che, da esperimenti effettuati con tecniche di neuroimaging, risulta che per eseguire i compiti i giovani utilizzano un emisfero, mentre i più anziani tendono ad usarli entrambi. Ciò conferma la tendenza ad una ottimizzazione delle risorse, con un funzionamento complessivo più efficiente. Da qui la possibile base per comprendere l’essenza del concetto che definiamo saggezza.
La saggezza
La saggezza è un concetto di non semplice definizione, poiché può essere inteso in molti modi differenti. Per gli Stoici il saggio è colui che conosce l’ordine immutabile e fatale degli eventi e vi si adegua in modo convinto e partecipe. In senso generale la saggezza viene intesa come la conoscenza teorica dell’ordine necessario del mondo e l’accettazione pratica del proprio destino in questo ordine.
Per Aristotele la saggezza (φρόνησις) è «una disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che dirige l’agire e concerne le cose che per l’uomo sono buone e cattive» (Etica Nicomachea, VI, 5, 1140 b 4). Sempre nello stesso testo (Etica Nicomachea, 1142°) Aristotele scrive: «La saggezza riguarda anche i particolari, i quali diventano noti in base all’esperienza, mentre il giovane non è esperto: infatti, è la lunghezza del tempo che produce l’esperienza. Perché ci si potrebbe chiedere anche questo: per quale ragione un ragazzo può essere un matematico, ma non un sapiente o un fisico? Non si deve forse rispondere che gli oggetti della matematica derivano dall’astrazione, mentre i principi della sapienza e della fisica si ricavano dall’esperienza?».
Per Aristotele quindi la saggezza dipende dall’esperienza, più questa è ricca maggiore essa sarà. Una vita densa di esperienze potrebbe dare una saggezza precoce, una vita priva di esperienze potrebbe non consentire il suo raggiungimento.
Le esperienze però, per essere utili, devono essere comprese e rielaborate, assimilate e superate. È quindi necessario che esse si inseriscano in una consapevolezza più profonda, combinandosi con altri essenziali elementi.
La saggezza richiede conoscenza, vale dire il saggio è un sapiente, conosce le cose del mondo. Questa sapienza non deve essere enorme, ma richiede la conoscenza degli elementi fondamentali della vita, a livello biologico e a livello filosofico, riguarda fatti della natura così come fatti dello spirito.
Questa conoscenza consente di esprimere opinioni che siano prive di pregiudizi, valutazioni assolute e condizionamenti. Il pregiudizio dà una visione parziale, relativa, restringe la valutazione, la rende sbilanciata. Una visione priva di pregiudizi è pura, universale, incondizionata.
Il saggio poi dovrebbe avere la capacità di cogliere l’essenziale in mezzo alla moltitudine. Spesso, presi dal flusso della vita, si perde di vista ciò che veramente è importante. Negli eventi dell’esistenza, nell’esercizio di una scienza, in un processo di conoscenza è fondamentale riconoscere gli elementi che veramente importano. Da un punto di vista neurobiologico questo si evidenzia proprio nel fatto che la riduzione di neuroni e sinapsi nell’invecchiamento porti a conservare quelle cellule, quei circuiti neurologici, quei contatti sinaptici che più contano, consentendo di non perdersi in una eccessiva quantità di dati, ma focalizzandosi su ciò che è veramente importante.
Anche la capacità di sintesi rappresenta una dote necessaria alla saggezza. Cogliere con uno sguardo una totalità, vedere con chiarezza gli elementi fondamentali in un individuo, in un popolo, in una storia.
Il saggio deve avere una serenità interiore, una pace profonda conquistata nel tempo, attraverso un lungo lavoro su di sé. La serenità interiore è una conquista non sempre possibile ma necessaria alla saggezza. Uno spirito tormentato, in guerra con sé stesso o con il mondo, turbato da conflitti, non può avere una visione equilibrata dell’esistenza. Ciò comporta una maturità emotiva, una conoscenza di sé e del proprio mondo interiore che consente uno stato partecipe, empatico e vitale. La maturità emotiva è la presenza equilibrata, fluida e serena dei propri sentimenti, che scorrono benefici nel corpo e nella mente.
Infine una dote fondamentale del saggio è l’umiltà. Questa è consapevolezza dei propri limiti, come essere umano, privo di ogni superbia o presunzione. È modestia e semplicità di sentimenti. È il sapere di non sapere socratico, l’apertura ad ogni contributo, lo spirito di ricerca che non si spegne mai. I grandi saggi non pretendono di sapere, di conoscere ogni cosa, ogni legge, ogni verità; essi sono aperti al dialogo, alla scoperta, alla ricerca. Ogni più piccolo contributo è prezioso e deve essere ascoltato. Ogni uomo ha una sua piccola saggezza che deve essere rispettata, quando questa non diventa arroganza, verità assoluta o definitiva. L’umiltà a volte si osserva nel silenzio, un silenzio partecipe e presente, che si manifesta in accoglienza ed ascolto. Troppe parole spesso nascondono presunzione, arroganza, stupidità. Il saggio invece è capace di parlare nel suo silenzio.
La maturità come preludio alla vecchiaia
La fase della maturità mette in particolare evidenza il processo di invecchiamento in corso. Anche se è vero che già appena nati noi siamo già abbastanza vecchi per morire, in questa fase il decadimento fisico e psichico si accentuano facendo sì che la maturità avanzata venga a rappresentare la prima fase dell’invecchiamento.
La maturità può essere intesa come il momento di entrata nella terza età, un allontanarsi progressivo dalla giovinezza ed un avvicinarsi inesorabile alla vecchiaia e alla morte.
Abraham (op. cit.,1993) scrive che «la vecchiaia rappresenta la fase più importante dell'esistenza, una fase culminante, di mete esistenziali raggiunte, di esperienze già fatte, di saggezza definitiva».
Prevenzione, miglioramento dell’alimentazione, delle terapie e dello stile di vita in genere hanno notevolmente modificato questa fascia di età rispetto al passato e si considerano oggi almeno dieci anni di differenza biologica in meno rispetto alle età del passato. Un sessantenne di oggi è come un cinquantenne di ieri.
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