Dasein Journal Numero 8 Aprile 2019
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In This Issue:

Prof. Ezio Risatti

Ezio Risatti

Psicologo, Psicoterapeuta, Preside Istituto Universitario Salesiano Rebaudengo – IUSTO Torino

Dasein Journal, Rivista di Filosofia e Psicoterapia esistenziale
Dasein Journal - All Numbers     

Dasein n°8, Aprile, 2019

I giovani in una giornata di nebbia, Prof. Ezio Risatti , Dasein Journal 8, p. 71-88 , Scarica Articolo PDF


Che cosa capiterà domani? Che cosa cambierà? E i giovani come si troveranno? È ingenuo pensare di poter descrivere la società di domani. Ma io che sono ingenuo lo faccio: è un divertimento per me e per quelli che hanno voglia di divertirsi nel confronto delle idee.

A livello di predisposizione mentale

Il primo cambiamento che prevedo sarà l’accettazione abituale dei cambiamenti. Nella storia si vede una progressiva disponibilità alle novità. Una volta le tradizioni erano molto costanti1 perché i cambiamenti erano minimi. Quindi la tradizione rappresentava il modo migliore, scoperto con l’esperienza, per gestire le diverse realtà2. Le continue novità del mondo di oggi obbligano a relativizzare tutte le tradizioni e a rendersi sempre più disponibili al cambiamento. Incrociando questo fenomeno con il fatto che i giovani vivono all’interno di una loro microsocietà, formata dai compagni di scuola con cui sono cresciuti, praticamente ne viene fuori un mondo giovanile con un cambiamento di abitudini e di ‘tradizioni’ ogni cinque anni.

Lo stile di vita a livello fisico e mentale

Ci saranno sicuramente sempre meno fatiche fisiche obbligatorie, fino a quando arriveranno macchine capaci di progettare e costruiranno da sole nuove macchine. A quel punto la fatica fisica sarà solo più facoltativa.

Sottolineo “fatiche obbligatorie”, come una volta erano zappare, portare carichi, sollevare pezzi di macchine… perché il corpo è fatto per sviluppare una certa quantità di lavoro fisico, è fatto proprio per fare una certa quantità di fatica e fa sentire questo suo bisogno.


Le fatiche però saranno frutto di libera scelta. I nostri studenti universitari, che vivono gran parte della loro giornata lavorativa seduti su di una sedia, poi vanno in palestra, oppure praticano qualche sport perché sentono il bisogno fisico di far lavorare il corpo, di fare un po’ movimento, di stancarsi fisicamente.

Allo stesso modo sono prevedibili sempre meno fatiche mentali ripetitive.

Anche qui i computer provvederanno a fare tutti i calcoli5, a organizzare i dati ovunque servano, a rendere facilmente disponibili tutti i saperi. Resta anche qui “l’essere fatta per” della mente, per cui, in assenza di fatiche mentali obbligatorie, le persone si dedicheranno a fatiche mentali di propria scelta (e magari inutili, ma piacevoli perché rispondono all’essere fatta per la mente, tipo: sudoku, parole crociate, giochi di tutti i tipi al computer…).
Le fatiche mentali richieste saranno più artistiche e creative, più relazionali. In realtà è possibile insegnare ad un computer a trovare soluzioni tecniche o anche creare possibili opere d’arte (in letteratura, musica, pittura, scultura…), ma sono attività che divertono, e quindi è prevedibile che l’uomo continui ad esercitarle in proprio.

In quanto alle fatiche relazionali mentali (capire che cosa dice l’altro, che cosa vuole, quali emozioni vive e quindi come reagire…) sono pure queste tranquillamente possibili ad un computer quantistico, ma non credo che arriveremo a risparmiarci queste fatiche, soprattutto quando la relazione si estende anche a livello psichico profondo (accoglienza, accettazione, perdono, intimità, amore...).

Domani sarà tutto più facile?

A livello psichico invece le fatiche aumenteranno di certo, sia a livello intrapersonale che interpersonale. A livello personale sta diventando sempre più difficile rispondere alle domande fondamentali su di sé: io valgo? Sono bella? Sono intelligente?… Mentre una volta c’erano indicatori standard di riferimento che, per quanto potessero essere poco obiettivi, servivano a farsi un’idea di partenza su di sé e sugli altri. Ora le persone non sono più obbligate a confrontarsi con pochi e predeterminati modelli, ma possono confrontarsi con un mare immenso di persone e questo li fa smarrire. Devono intraprendere un lungo cammino di conoscenza su di sé, magari accompagnati da uno specialista, per poter dare una risposta alle domande e, soprattutto, per poter scoprire e appoggiarsi sulle proprie risorse.

Così sarà pure la costruzione voluta e cosciente di relazioni personali valide a livello di comunicazione, di fiducia, di affettività… Le relazioni sono un elemento costituente la persona a livello proprio del suo essere: ognuno è anche le sue relazioni. La metafora della stazione ferroviaria aiuta a capire questo fattore: una stazione è tanto più importante (una persona cresciuta) quanti più binari ha che la collegano ad altre stazioni (l’importanza del numero delle relazioni). Ma è pure importante più o meno secondo il numero di treni che viaggiano su quei binari (importa anche il numero delle comunicazioni nel dare valore alle relazioni). Ma è pure molto diversa e molto più importante secondo il numero di passeggeri e la quantità di merci trasportate su quei treni (l’importanza della qualità delle relazioni). Una stazione in se stessa, da sola, con i suoi binari che finiscono alla fine della stazione e non vanno da nessuna parte, è priva di senso.

Nel passato si ereditavano relazioni obbligatorie e precostituite, sia familiari che sociali. I vantaggi erano che le relazioni esistevano e davano una certa soddisfazione e garanzia. Ora ognuno deve conquistarsi le sue relazioni: neanche più la famiglia fornisce relazioni garantite per sempre. I vantaggi sono che ognuno può intessere le relazioni più adatte e favorevoli alla sua persona, aprendone e chiudendone fino a quando si sente al suo giusto posto. I guai sono che non c’è preparazione a questa nuova dinamica, per cui relazioni ricche di potenziale si sfasciano anche per motivi banali e non tutti sono in grado di costruirne delle nuove.

Collegato al tema delle relazioni personali c’è quello delle relazioni comunitarie: la coscienza dell’importanza della cooperazione come base di realizzazione del singolo e di tutto l’insieme. Il dominio della razza umana sul pianeta è avvenuto attraverso il progressivo unirsi e coordinarsi di forze: la famiglia, il villaggio, il piccolo staterello, il grande stato, l’organizzazione di più stati. Oggi vanno avanti le persone che si uniscono, le famiglie che si uniscono, le aziende che si uniscono, le religioni che si uniscono10, i popoli che si uniscono, le nazioni che si uniscono… Dove va avanti la divisione, la separazione, la frantumazione… non c’è grandezza di futuro.

L’individualismo

Sembra assurdo, ma man mano che cresce la coscienza di appartenere a realtà sempre più grandi si diffonde l’idea di potersi separare da quelle più piccole in cui uno è inserito. Così molte persone pensano di poter vivere meglio pensando solo al proprio interesse personale, sganciandosi dal cooperare al benessere comune. Manca la coscienza che con rinunce grandi dieci, si possono raggiungere vantaggi per tutti grandi quindici e venti. Aumentano così le famiglie single, la disponibilità a passare da un gruppo di amici ad un altro, aumentano le persone senza radici. Molti non sanno che non si può essere cittadini del mondo senza far parte progressivamente di una serie di realtà sempre più ampie: la famiglia, il giro degli amici o associazione, il quartiere o la cittadina, la regione, lo stato, il continente, il mondo. Si possono certamente saltare alcuni inserimenti, ma non consecutivi, perché ogni allargamento deve essere a misura di uomo, altrimenti viene meno il senso di appartenenza.



Che cosa potrà capitare allora nel mondo delle relazioni?
Proviamo ad elencare i fattori relazionali già cambiati e che ancora cambieranno.
Le relazioni sono sganciate dal territorio e dalla famiglia.
Le razze e le culture diverse si mescolano tra di loro.
Si possono seguire le trasmissioni televisive di praticamente tutto il mondo.
Si può venire a contatto con le idee di chiunque.
Si diffonde la possibilità di comunicare a bassissimo costo, sempre e con tutti.
Si diffonde la possibilità di viaggiare a costi contenuti.

[...]

A livello interpersonale è prevedibile un aumento di fatica ancora maggiore.
La mobilità di abitazione che comporta lo stress del trasloco con la fatica di dover conoscere un nuovo territorio.
La mobilità lavorativa che comporta lo stress della ricerca, delle nuove competenze da acquisire, del nuovo territorio da conquistare...
Il passaggio dalle relazioni familiari a quelle amicali.
I cambiamenti sopra indicati portano ad una percezione del territorio spezzettato a macchia di leopardo. Una volta ogni villaggio aveva il suo territorio e guai ad uscire di lì. Poi il rapporto con il territorio è cambiato per diversi motivi.
Il sostentamento delle persone non è più legato alla quantità e alla qualità del terreno posseduto.
I mezzi di trasporto hanno permesso di raggiungere velocemente territori lontani.
I familiari non sentono il bisogno di rimanere vicini tra di loro per aiutarsi a vivere.
Da tutti questi fattori è emersa una percezione di territorio personale, della famiglia o del gruppo a pezzi staccati tra di loro, a macchia di leopardo appunto, e tra uno e l’altro esistono solo i fili sottili delle strade percorse, con piccole ingrossature in concomitanza delle soste abituali. Proviamo allora a descrivere l’inserimento territoriale di un giovane (naturalmente ogni pezzo indicato dipende poi dalla persona reale). Un giovane avrà un pezzo di territorio vicino alla casa dove abita (e se passa un po’ di tempo con papà e un po’ la mamma separati, ne avrà già due come abitazione), poi un pezzo vicino alla scuola che frequenta, un pezzo vicino ai nonni (magari più di un posto), poi ne avrà un altro pezzo vicino alla casa di villeggiatura, magari anche con altri amici. Poi un pezzo vicino alla palestra, all’oratorio… vicino alla casa di ogni amico che frequenta abitualmente. La percezione del territorio in lui corrisponde ad un territorio reale, prima disgregato e poi ricomposto con pezzi lontani tra di loro: un territorio personalizzato da cui si possono togliere e aggiungere pezzi secondo le opportunità.

[...]

A livello del rapporto educativo

Sono caduti dei principi fondamentali dell’educazione dei giovani, principi che sono stati validi per tutti i millenni che ci hanno preceduti.

Una volta, infatti, l’educatore poteva ben dire: «Io sono stato giovane prima di te, quindi so quali problemi si vivono alla tua età e, con la mia esperienza, ti posso aiutare a superarli meglio». Ora i giovani vivono realtà che ai tempi dell’educatore non c’erano (social, connessione continua…) e quindi non può sapere cosa vivono all’interno di queste realtà: quali emozioni, quali paure, quali ansie, quali gioie e quali frustrazioni, sofferenze... Non nel senso che l’educatore non sappia che cosa sono o non le usi lui stesso, ma l’esperienza che gli manca è quello che si prova nel viverli a 10 – 15 anni e le conseguenze che ne derivano, quando un ragazzo non ha ancora una sua struttura di personalità formata ed è estremamente vulnerabile nelle relazioni.

Secondo, l’educatore è sempre stato un adulto ben inserito nella sua adultità (altrimenti che educatore è?!) e nel passato, con la sua esperienza, preparava il giovane ad inserirsi anche lui nel mondo adulto. Ora gli educatori non possono più sapere come sarà la società in cui dovranno inserirsi domani i giovani di oggi. E allora, come possono prepararli? La risposta teorica è abbastanza facile, il problema è che richiede educatori ben più maturi e più formati di una volta.

Oggi sono molto più numerose le opportunità che un giovane ha a disposizione nella sua vita. Fino alla prima rivoluzione industriale, un giovane poteva scegliere soltanto ‘come’ portare avanti la tradizione della famiglia in cui era nato. Poi nel 19° e 20° secolo si sono presentate le possibilità di cambiare il proprio destino, slegandolo da quello della famiglia di provenienza. Ora la maggior parte dei giovani è necessariamente slegata dalla tradizione familiare e affidata molto di più a se stessa. E il ventaglio che si apre davanti a lui è teoricamente talmente vasto, inconoscibile e soprattutto imprevedibile, da rendere problematico e difficile l’orientamento. Paradossalmente era più libero di scegliere il giovane di ieri che aveva davanti a sé un ventaglio più ristretto, più conoscibile e prevedibile che non il giovane di oggi. E ancora di più il giovane di domani.

La paura di perderci

L’abbondanza delle possibilità di scelta che si sono venute a creare ha portato una conseguenza problematica: ogni scelta comporta una perdita superiore a quanto si ottiene. Ad esempio: un bambino ha davanti a sé dieci giocattoli e ne deve scegliere uno. Qualunque scelga, perde gli altri nove: ne ottiene uno e ne perde nove. Il concentrarsi sulle possibilità perdute inceppa il meccanismo della scelta e il bambino tentenna a lungo, poi ne vuole più di uno, poi dopo ancora è capace di pentirsi e protestare che lui ne voleva un altro. Se l’esempio riportato non comporta gravi conseguenze, quando si tratta di scegliere uno sport, un hobby, un corso di studi, … tutto diventa difficile e aperto al rimpianto, perché, ad ogni nuova scelta si chiudono più strade di quante se ne aprono. Quello che è un frutto di crescita sociale (la maggior apertura del ventaglio di scelta) diventa spesso un freno alla crescita delle persone.
Ad esempio: come si fa a scegliere la donna della propria vita, dal momento che, scegliendone una, si perdono tutte le altre. Il desiderio sarebbe quello di provare tutte le alternative possibili e poi, dopo, poter tornare indietro e scegliere quella che era piaciuta di più: «Il caso n° 17a è stato il migliore, quindi scelgo quello 19».
Ci sono giovani che percorrono una via (un percorso di studi, uno sport, un hobby…) per un certo periodo, poi hanno voglia di provarne un altro e cambiano, poi magari ne provano ancora un terzo. Di fatto che cosa capita: fanno 1 Km in una direzione, poi tornano al punto di partenza e ne fanno un altro in un’altra direzione, poi tornano ancora al punto di partenza e ne fanno un terzo in una nuova direzione. Se non piace neanche questo e tornano ancora da capo, hanno già percorso 6 Km e sono al punto di partenza. Se si vuole percorrere molta strada, bisogna decidere la direzione e poi andare avanti in linea retta, sempre nella stessa direzione. Così si va ben più lontano, ma è difficile scegliere tra tante possibilità incerte e poco conosciute. La nebbia che li avvolge, impedisce loro di vedere bene la meta a cui sono diretti, impedisce di conoscerla bene da lontano, di desiderarla fortemente… Impedisce lo sviluppo della teleologia come dimensione necessaria nel cammino dell’educazione.

[...]

E allora?

Allora teniamo d’occhio i giovani, perché saranno i primi a manifestare la nuova umanità che sorgerà. Una nuova umanità non più capace di tenere a memoria tanti numeri di telefono o di fare calcoli mentali veloci, ma capace di utilizzare positivamente tutte le nuove possibilità e di ovviare alla perdita di capacità del passato. Se oggi si trovano davanti un banco di nebbia e devono navigare a vista, sapranno trovare la loro rotta nonostante tutte le nebbie e giungere al loro porto di destinazione: una vita realizzata.

E noi, oggi adulti o vecchi?

Certamente non faremo parte di quel nuovo mondo, ma non abbiamo motivo di dispiacerci o di svalutarci. È un aspetto della genitorialità: lanciare i figli verso un futuro migliore del proprio. Guardiamo la storia passata: chi ha preparato e introdotto le nuove epoche storiche ha un merito grande come chi le ha vissute, anche se non ha fatto parte del mondo nuovo.
La metafora del grattacielo. Prendete ad esempio il Kingdom Tower a Gedda, in Arabia Saudita, il grattacelo più alto al mondo, a oggi ancora da terminare. Sono previsti 200 piani e un’altezza complessiva di circa mille metri (allo stato attuale è indicata come 1007 m). Ma l’altezza raggiunta non è merito dell’ultimo piano, quello che sta ad un chilometro da terra, perché ogni piano contribuisce esattamente come tutti gli altri a raggiungere quell’altezza finale, tutti danno il loro contributo a raggiungere il risultato perseguito.

È vero che le fatiche fatte nelle diverse epoche sono diverse, ma a questo può rispondere bene un’altra metafora: la piramide di Cheope.

Chi ha portato le pietre dei primi strati, non le ha dovute sollevare a chissà quale altezza, ma ne ha dovute portare migliaia. Chi ha portato le pietre per il culmine, ne ha portate poche rispetto al numero delle pietre della base, però le ha dovute sollevare a più di 100 metri. Alla fine, la piramide è alta 138 metri e alla sua altezza contribuiscono esattamente tanto le pietre della base quanto quelle della cima.
Così è la storia dell’umanità, destinata a raggiungere altezze inimmaginabili, non per sfidare Dio, come la Torre di Babele (Genesi 11,1-9), ma proprio con l’aiuto di Dio. Ebbene, noi che non vedremo la vetta, non per questo avremo meno merito di chi inaugurerà l’ultimo piano, perché anche il piano da noi costruito avrà lo stesso merito dell’ultimo nel raggiungimento del traguardo finale.
Quindi: lavorare per far crescere il più in fretta e il più alto possibile tutta l’umanità.

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