Open in PDF »
In This Issue:
Enrico Larghero
Bioeticista, Responsabile - Direttore Master Universitario in Bioetica della Facoltà Teologica di Torino
Inizio e fine vita in una prospettiva bioetica, Prof. Enrico Larghero
Rivista di Filosofia e Psicoterapia esistenziale
Dipartimento di Psicologia, Psicopatologia e Psicoterapia
Istituto Superiore di Filosofia, Psicologia, Psichiatria ISFiPP
Dasein n°8, Aprile, 2019
Inizio e fine vita in una prospettiva bioetica, Prof. Enrico Larghero, Dasein Journal 8, p. 16-40 , Scarica Articolo PDF
Quelli che si innamorano della pratica senza la scienza, sono come il nocchiero che monta sulla nave senza bussola e non ha mai la certezza di dove va. -Leonardo da Vinci
Introduzione
La realtà che circonda i cittadini del mondo del III millennio e nella quale essi vivono è profondamente mutata rispetto ai secoli scorsi. L’uomo è entrato gradualmente nei meccanismi più intimi che controllano e muovono il cosmo, la natura e la vita.
Le tecnologie e lo sviluppo rapido e tumultuoso delle comunicazioni hanno ridotto le distanze e fatto incontrare, confrontare e talvolta scontrare popoli diversi e lontani tra loro. La globalizzazione ha cambiato il volto del nostro pianeta in modo ormai irreversibile.
L’informazione, protagonista assoluta, esercita un crescente impatto mediatico, influenza e condiziona profondamente le coscienze ed i comportamenti.
Tra i nuovi scenari che si aprono, la medicina, la biologia e le tecnoscienze in genere, hanno esercitato un ruolo estremamente significativo e, più di altri saperi, hanno contribuito a modificare gli stili e le aspettative.
Tuttavia ogni medaglia ha il suo rovescio e pertanto la medicina ha permeato in misura sempre maggiore il nostro modo di vivere, insinuandosi nella dinamica di ogni momento, dalla vita che nasce, al suo divenire, sino alla vita che volge al termine. È quel processo che viene definito “medicalizzazione dell’esistenza” e che ha ingenerato, da una parte, una sorta di delirio di onnipotenza della classe medica e dall’altra delle aspettative di salute e di benessere che anelano ormai all’immortalità. L’uomo vuole diventare arbitro, architetto e padrone assoluto del suo destino. Si nasce quando si decide e si muore quando si vuole: dalla fecondazione in vitro all’eutanasia. Il concetto di medicalizzazione nasce dalla sociologia per spiegare un fenomeno sempre crescente, quello dell’invadenza della medicina in campi di pertinenza non scientifica e che ha portato alcune condizioni umane, un tempo considerate normali, ad essere interpretate come patologiche. È la fisiologia che diventa patologia. Tale fenomeno complesso ha molti responsabili, dall’industria farmaceutica alle istituzioni, dai medici ai pazienti. Afferma Ivan Illich: “La scelta del farmaco è una funzione della cultura, l’abuso una funzione dell’uomo. La medicina curativa, ippocratica, è stata negli anni affiancata dalla medicina predittiva. I risultati positivi sono evidenti.
Comportamenti corretti riducono il rischio di malattie; le vaccinazioni hanno debellato piaghe sociali, quali la poliomielite e la tubercolosi; la diagnosi precoce in campo oncologico (Pap-test, mammografia, PSA) ha fornito strumenti terapeutici formidabili.
All’inizio del ’900 oltre il 90% di chi si ammalava di tumore era destinato a morire, mentre oggi più del 60% giunge alla guarigione.
La grande sfida odierna degli scienziati è volta a conoscere sempre più a fondo i processi molecolari che regolano il funzionamento delle cellule e le dinamiche fondamentali dell’origine della vita.
La medicalizzazione, l’idea di poter penetrare nei meccanismi più intimi che governano le leggi della biologia, raggiunge qui la sua massima espressione. Sono i presupposti di una scienza indipendente da condizionamenti ed autoreferenziale. Si può nascere in vitro, si possono “fabbricare” bambini. Addirittura si può svincolare la sessualità dalla riproduttività come avviene con la clonazione. Da questo humus emerge una corrente di pensiero avveniristica, il post-umanesimo.
[...]La vita che nasce
Venire al mondo è sempre stato un evento naturale avvolto nel mistero, caratterizzato da opportunità e rischi. Un tempo condizioni di vita precaria, scarsa igiene, malnutrizione e arretratezza rendevano la gravidanza un evento altamente rischioso, talora letale o invalidante. La medicina ha mutato tale scenario e si è passati dal parto in casa a quello in ospedale, dalla sola assistenza della “levatrice” (ostetrica di un tempo) a quello del medico specialista, dalla mancanza di controlli adeguati in gravidanza ad un eccesso di prescrizioni ed esami, che si estendono al periodo perinatale. Inevitabile la lievitazione degli interventi, quali parti cesarei, episiotomie, farmaci e analgesia. L’inevitabile risultato di tutto ciò è una generale confusione che regna sovrana nell’immaginario collettivo e muta artificiosamente anche il naturale svolgersi del processo vitale. Il neonatologo C.V. Bellieni scrive al riguardo: «In un’epoca che vuole programmare tutto, la paura dell’ignoto è la grande patologia» anche «la gravidanza viene spesso vissuta con paura». Diventa sempre più facile percepire il figlio-prodotto da accogliere solo se soddisfa determinate condizioni (buona salute, caratteristiche prescelte di genere, …). Si confonde così la legittima aspettativa di un figlio con il pretenzioso diritto ad averlo ad ogni costo e secondo standard prestabiliti. Osserva ancora Bellieni: «Nel secolo dell’ideologia della programmazione, va sfatato il mito del “figlio perfetto” (figlio-pupazzo), che possiamo manipolare a piacimento e senza rischi, per farlo a nostra immagine, cioè il mito di un “tu” (il figlio) ridotto alla misura dei nostri desideri, anzi delle nostre paure».
Questo atteggiamento diffuso porta inevitabilmente alla medicalizzazione del nascere. Molte sono le questioni in gioco. Va prima di tutto notato che nuove esigenze sociali e lavorative portano la donna a spostare l’età del primo concepimento attorno ai trenta anni. La tendenza non è priva di rischi per il nascituro. Si registrano, infatti, maggiori casi di parti prematuri, natimortalità, aborto spontaneo, gravidanze ectopiche o plurigemellarità, malformazioni congenite da mettere direttamente in relazione al concepimento in età avanzata.
La gravidanza è vissuta con sempre maggiore ansia. Puerpere giovani e meno giovani ricorrono sempre più spesso quindi alla diagnosi prenatale. È compito degli operatori sanitari informare accuratamente sui danni che può provocare. Secondo alcuni studi non può essere affrontata con faciloneria. Due ecografie in gravidanza non influiscono sullo sviluppo del feto, ma è stata dimostrata una crescita fetale inferiore se il numero degli screening arriva a cinque. L’amniocentesi e il prelievo dei villi coriali aumentano i rischi di morte fetale. I nati dopo amniocentesi hanno maggiori problemi respiratori alla nascita e registrano significativi casi di piede torto equinovaro. Va poi ricordato che non sempre l’indagine strumentale è usata per il benessere del feto. Spesso è, infatti, l’anticamera dell’aborto eugenetico in ossequio alla dilagante handicapfobia che porta a rifiutare il figlio non perfetto.
Al contrario, non mancano coloro che decidono con la fecondazione artificiale di programmare un figlio disabile. È emblematico il caso della coppia di lesbiche sorde che scelse un’inseminazione artificiale col seme di un donatore sordo al fine di avere un figlio sordo. A proposito di fecondazione artificiale, è necessario ricordare che è troppo facilmente propugnata come la soluzione facile di fronte alla difficoltà ad avere figli. Le motivazioni sono certamente di carattere economico. È molto più remunerativo, infatti, per gli operatori sanitari, attenti più al tornaconto personale che all’interesse dei pazienti, proporre questa soluzione anziché orientare ad un esame accurato delle cause e ad un’adeguata cura (secondo i casi, farmacologica, psicologica, chirurgica). Sono messi in secondo piano lo stress, i dubbi etici e le incognite di vario genere che la coppia dovrà incontrare e subire sottoponendosi all’iter necessario per la fecondazione artificiale. Tecnici spregiudicati passano sotto silenzio anche la documentata constatazione che alla nascita questi bimbi presentano statisticamente problemi maggiori rispetto a quelli concepiti naturalmente. Altro punto dolente della questione è la pratica dell’aborto. Mentre il Codice civile italiano all’art. 1 sostiene che i diritti a favore del concepito «sono subordinati all’evento della nascita», la legge 194/1978, art. 1 proclama la tutela della «vita umana dal suo inizio». È drammaticamente evidente lo iato tra le dichiarazioni e l’attuazione pratica. F. D’Agostino, presidente emerito del Comitato Nazionale di Bioetica e docente di filosofia del diritto, annota che «in nessun altro testo normativo il legislatore italiano ha preso una posizione così chiara e inequivocabile in difesa non dell’uomo o della persona ma della vita umana in quanto tale».
Alle affermazioni, però, non corrisponde un’effettiva tutela della vita. Di fronte a queste incongruenze, come esprime in modo sintetico e chiaro M. P. Faggioni, «occorre educare i giovani a cogliere il significato della sessualità, dell’amore, del dono della vita. In vista di una prevenzione immediata del ricorso all’aborto facile sarà necessario quindi organizzare consultori e centri di aiuto alla vita pubblici e privati ed eliminare le cause sociali di aborto con una politica a favore della famiglia. Non ci si deve
illudere, infatti, che liberalizzare o depenalizzare l’aborto sia sufficiente, se non c’è una seria opera di educazione al valore della vita e della maternità».
Il divenire della vita
La Medicina ha profondamente mutato l’aspettativa di vita nel mondo occidentale. Patologie un tempo inguaribili sono state debellate, altre curate con appropriatezza si sono cronicizzate permettendo una qualità di vita dignitosa. La medicalizzazione coinvolge l’uomo del XXI secolo in ogni fase della sua esistenza: dalle origini della vita sino alle fasi ultime, passando inevitabilmente dal suo divenire. L’età media si è così progressivamente allungata (83 anni circa per le donne e 77 per gli uomini), vi è ormai non solo più la terza, ma anche la quarta età e solo quest’ultima si identifica con la vecchiaia. La Medicina ha percorso due strade, da un lato l’olismo, cioè il vedere i pazienti come un tutt’uno con la loro malattia. Un organo danneggiato conduce inevitabilmente ad un danno con ripercussioni su tutto il corpo. Dall’altro lato, la Medicina riduzionistica fatta di specialità ed ultra-specialità. Ambedue le strade sono feconde di risultati, l’una non esclude l’altra.
Basti pensare alla scienza dei trapianti resa possibile da un sistema sanitario efficace ed efficiente, ricco di risorse economiche, all’interno del quale si muovono operatori competenti.
La vita che volge al termine
Il progresso della scienza medica offre possibilità diagnostiche, terapeutiche e rianimatorie inimmaginabili fino a qualche decennio fa. Molte patologie che un tempo portavano velocemente verso la morte, ora sono curabili o almeno sono compatibili con una discretamente lunga aspettativa di vita. Questo nuovo stato di cose, estremamente positivo, ha anche prodotto un pernicioso ed innaturale delirio di onnipotenza. La morte, passaggio obbligato di ogni vicenda umana, sembra segnare il fallimento più drammatico del presunto imperio dell’uomo sulla vita ed è diventato un tabù inaccettabile da respingere con tutte le forze. Il Codice di deontologia medica sostiene che «il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita». Al contrario, si ricorre spesso all’accanimento terapeutico.
Con quest’espressione si segnala il tentativo d’opporsi con mezzi sproporzionati al processo fisiologico della morte sottoponendo il paziente terminale a terapie che determinano il prolungamento di un’agonia sfiancante e dolorosa. È frequente il passaggio dall’accanimento all’abbandono terapeutico. Quest’ultimo indica il tentativo di interrompere le cure ordinarie e palliative (alimentazione, idratazione, igiene, detersione delle ferite e delle piaghe, terapia antalgica e sedativa) quando ogni tentativo sembra fallire. Il sopraccitato codice deontologico ricorda, invece, che «il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte». Per contrastare l’accanimento e l’abbandono terapeutico si sta facendo strada la possibilità del testamento biologico. La Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina del 4 aprile 1997 lo descrive come l’atto scritto «con cui una persona decide sul trattamento sanitario e sull’uso del proprio corpo, o di parti di esso, nonché alla modalità di sepoltura o alla assistenza religiosa».
Diversi sono i disegni di legge in discussione in Italia sulla possibilità di introdurre le direttive anticipate di trattamento, peraltro, già in qualche misura prospettate dall’art. 32 della Costituzione, quando afferma che «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». È facile prevedere che l’iter parlamentare che eventualmente porterà una nuova normativa in materia avrà uno sviluppo lento. Permangono, infatti, dubbi sull’opportunità di una disposizione di questo tipo. Nessuna persona sana e nel pieno possesso delle facoltà mentali può prevedere cosa desidererà, quando dovesse essere colpita da malattia incurabile.
Il pensiero umano deve procedere libero e scevro da pregiudizi. Ogni riflessione può aprire il campo a nuove scoperte, essere lo stimolo per nuovi confronti, purché il tutto avvenga con toni sereni, pacati, con appropriatezza di argomentazioni e con onestà intellettuale. Ridiscutere sul “fine vita”, sugli stati vegetativi, sulla morte cerebrale è possibile, ma si deve evitare il rischio di giungere a conclusioni affrettate che alimentano un clima di sfiducia, che allontanano invece di avvicinare e che impediscono un dialogo fecondo tra scienza ed etica, e quindi un vero ed autentico progresso.
Curare adeguatamente non è solo somministrare dei farmaci, ma qualcosa di più, è un rapporto tra esseri umani e come tale non codificabile da regole, norme e codici. Soltanto chi possiede un bagaglio esistenziale, culturale e valoriale adeguato può affrontare le situazioni e districarsi nel complesso mondo della salute. Questa è la vera umanizzazione della
medicina, fatta di scienza e coscienza, ove l’interazione medico-paziente deve definire sia gli obiettivi della terapia, sia la soglia di tolleranza e di sopportazione, i disagi e le sofferenze imposti dalla malattia stessa. Il medico ha l’obbligo di prendersi cura del paziente, ma al contempo ha il dovere di rispettarne l’autonomia.
E’ opportuno quindi che vi sia intorno a lui una cooperazione sensibile ed attenta che gli garantisca un’assistenza integrale fisica, psicologica e spirituale e una morte umanamente dignitosa.
Conclusioni
Il vivo interesse dell’opinione pubblica suscitato dai temi bioetici ha messo in luce alcune tra le questioni più problematiche dello Stato laico e pluralista: il rapporto tra individuo e libertà, tra scienza e legge.
Da un lato, il principio laico di autodeterminazione, di affermazione della libertà intesa come valore assoluto e incondizionabile, in base al quale ciascuno è padrone della sua vita e può disporne pienamente. Quando la salute si allontana, l’efficienza viene meno, le performances psico-fisiche si depauperano, secondo questa ottica, l’individuo ha il diritto di porre fine
alla sua vita, e nessuno Stato può violarne le richieste.
Dall’altro lato, in contrapposizione, il principio di inviolabilità e indisponibilità, di ispirazione cattolica. La vita è un dono e nessuno è padrone della propria esistenza.
Il fenomeno della medicalizzazione dell’esistenza, oggi più che mai alla ribalta, ne rappresenta l’esemplificazione più significativa, coinvolgendo la vita dalle sue origini al suo termine, dalla fecondazione in vitro all’eutanasia.
La scienza tuttavia, secondo quanto afferma il filosofo Karl Popper, procede per trial and error, per prove ed errori, e non si pone “a priori” il problema morale della ricerca, semmai “a posteriori”, a scoperte avvenute vengono prese in esame le eventuali ricadute sociali. Solo con l’avvento della bioetica negli anni ’70 gli studiosi hanno dimostrato un rinnovato interesse per le questioni etiche, rimettendo in discussione il senso ultimo della ricerca. La tecnologia non ha più un valore soltanto strumentale, ma reca con sé una ben determinata visione della vita e dell’essere umano. La tecnica si trasforma così in evento culturale ed assume una specifica connotazione fideistica, quella cioè il cui assunto fondamentale è una manipolazione senza limiti sull’uomo e sul creato. Non è come si vuol far credere una scienza neutrale.
[...]